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Radioecologia ed ecosistemi contaminati da radionuclidi

R. M. G. Ocone ISPRA BIO-CFL

 

La radioecologia è un ramo dell’ecologia concernente l’interazione delle radiazioni ionizzanti con gli ecosistemi, sia per gli effetti provocati, come l’inquinamento radioattivo e l’accumulo di radionuclidi in particolari organismi, sia per determinate applicazioni, come lo sfruttare  la presenza di radionuclidi in determinati elementi per la tracciabilità del loro ciclo naturale, del metabolismo minerale di piante e animali, dei sedimenti etc.

Nasce agli inizi degli anni ’60, a seguito dei test atomici condotti negli ‘50, per valutare gli effetti sull’uomo della ricaduta dei radionuclidi: inizialmente, quindi, essendo lo scopo pricipale la  valutazione della dose ricevuta dall’uomo, la radioecologia si occupò soprattutto di agroecosistemi, che rappresentano il primario veicolo della contaminazione da radionuclidi attraverso le catene alimentari.

Nel 1986 l’incidente di Chernobyl comportò un rilascio notevole in atmosfera di radionucli, con conseguente attenzione radioprotezionistica. Tuttavia in Europa occidentale i valori misurati sulle matrici agricole furono fortunatamente relativamente bassi, mentre le concentrazioni piu alte si verificarono negli ecosistemi naturali o seminaturali. Quindi la radioecologia, oltre agli iniziali scopi radioprotezionistici, iniziò a volgere l’attenzione in maniera maggiore agli ecosistemi naturali.

Esistono importanti differenze fra agroecosistemi ed ecosistemi naturali e seminaturali:

  • i terreni dei primi sono frequentemente irrigati a differenza dei secondi che sono perlopiù indisturbati;
  • i secondi presentano una distinzione più marcata fra strati organici superiori e strati minerali sottostanti. Tali strati presentano differenze in contenuto di nutrienti, attività biologica, pH, ritenzione idrica, etc.;
  • biodiversità: i primi sono solitamente monocolture, i secondi sono più ricchi di specie;
  • micorrizzazione: nei secondi, soprattutto negli ecosistemi forestali, moltissime specie vivono in simbiosi con funghi e questo interferisce con l’assorbimento ed il trasferimento dei radionuclidi dal suolo attraverso gli apparati radicali.

I relativi valori di contaminazione dei suoli, delle piante, degli animali degli ecosistemi presentano una larga variabilità e, poiché tale variabilità influisce pesantemente sull’affidabilità dei modelli predittivi, la radioecologia si è occupata sempre più del ciclo dei radionuclidi negli ecosistemi per studiare le cause di tale variabilità.

Oltre ai fattori fisici, chimici, biologici, etc. nel caso dei radionuclidi a lunga vita media il loro  trasferimento è formato da diversi cicli stagionali durante i quali le relative quantità variano in funzione dei tassi di crescita, dell’età, del contenuto di nutrienti e di acqua associati agli organismi dell’ecosistema.

In radioecologia fra i radionuclidi a lunga vita media il 137Cs e lo 90Sr sono quelli di maggiore interesse in quanto i più dannosi: essendo chimicamente correlati, rispettivamente, al potassio e al calcio, possono infatti essere facilmente assorbiti dagli organismi. Altro radionuclide di interesse è il 239Pu.

In radioecologia un bioindicatore  non deve migrare, deve essere abbondante, facile da campionare, distribuito su ampia zona geografica, concentrare molti radionuclidi ed avere un lento ciclo del loro  utilizzo.

Gli organismi biologici possono essere impiegati nel monitoraggio dell’inquinamento in due diverse maniere: come bioindicatori e come bioaccumulatori.

Diverse metodologie di biomonitoraggio permettono infatti di caratterizzare alcuni parametri ambientali in funzione degli effetti su determinati organismi sensibili e, in base a tale effetti,  possono quindi essere distinte in due categorie:

  • Tecniche di bioaccumulo:  misurano le concentrazioni di radionuclidi in organismi in grado di assorbirle ed accumularle  (bioaccumulatore) dall’ambiente. Definendo le relazioni tra le concentrazioni di inquinanti nell’ambiente e quelle nel bioaccumulatore, tali misure possono essere utilizzate per risalire alle vie di deposizione nell’ambiente in cui il bioaccumulatore si trova. Il bioaccumulatore deve quindi avere scarsa sensibilità agli effetti dei contaminanti ma deve poterne accumulare, su lungo tempo, notevoli quantità. Queste tecniche sono basate su analisi chimico-fisico.
  • Tecniche di bioindicazione: stimano gli effetti di variazioni ambientali su componenti sensibili degli ecosistemi, come modificazioni morfologiche, fisiologiche, genetiche a livello di organismo, di popolazione o di comunità (bioindicatore),  sfruttando il principio opposto a quello del bioaccumulo. Il bioindicatore deve quindi avere spiccata sensibilità agli effetti dei contaminanti. Queste tecniche sono basate su misure biologiche.

Appare quindi evidente che in radioecologia il biomonitoraggio si avvale di  bioaccumulatori poiché le concentrazioni dei radionuclidi nell’ambiente non sono tali da produrre modificazioni di alcun tipo nell’organismo stesso o nella popolazione tali da permetterne l’uso come bioindicatore.

Diverse matrici biologiche possono quindi essere utilizzate come bioaccumulatori per il monitoraggio dei radionuclidi presenti nell’ambiente. Licheni e muschi, ad esempio,  sono largamente utilizzati per il biomonitoraggio di radionuclidi nel particolato atmosferico, in particolare di 137Cs,  90S, e  239Pu che hanno lunghi tempi di dimezzamento.

 

Licheni

Gli studi sul bioaccumulo dei radionuclidi atmosferici tramite ilicheni permettono di valutarne la diffusione e i veicoli di deposizione e di risalire, quindi, alle fonti di inquinamento.

La contaminazione avviene essenzialmente per deposizione atmosferica sulla superficie del tallo lichenico con conseguente assorbimento, risultando l’assorbimento dal suolo essenzialmente  trascurabile.

Negli ‘50, a seguito dei test nucleari in atmosfera, nei paesi nordici sono stati effettuati molti studi a riguardo in considerazione della catena alimentare  licheni-renna- popolazione peculiare per quelle zone. Fu evidenziato che le concentrazioni di  137Cs e di 90Sr erano significativamente maggiori rispetto rispetto  alle  piante  vascolari e che non vi erano sostanziali perdite di 137Cs per dilavamento da piogge dai talli dei licheni.

In Italia gli studi sul bioaccumulo di radionuclidi in talli lichenici sono pochi ecomunque effettuati dopo  l’incidente  di Chernobyl del 1986.

Briofite

A differenza di licheni e funghi, l’assorbimento dei radionuclidi nelle briofite avviene tramite trattenimento per capillarità dell’acqua piovana o per deposizione del particolato atmosferico. Non vi è, quindi, assorbimento dal tallo o dal micelio.

Non entrando nelle catene alimentari negli ’50 non sono stati effettuati studi sul bioaccumulo di radionuclidi nelle briofite ma, poiché in grado di raccogliere il fallout atmosferico, sono state impiegate come bioindicatori di contaminazione ambientale da radionucli   attorno  a  siti  nucleari  e, quindi, come  indicatori  della  deposizione da  137Cs a seguito all’incidente di Chernobyl.

I muschi non hanno tessuti vascolari,  radici  e  cuticola  ed  acquisiscono  elementi  minerali  e  nutrienti  direttamente dall’acqua atmosferica. Poiché hanno un’alta capacità di assorbimento di acqua e di intrappolamento del particolato depositato, studi di correlazioni con precipitazioni indicano che le briofite sono bioaccumulatori  di  fallout  radioattivo  a seguito di specifici eventi.

Funghi

Per quel che riguarda i funghi, la loro capacità di concentrare selettivamente ed in grandi quantità radionuclidi, fu messa in evidenza sempre negli anni ’60 e ricerche in quest’ambito hanno avuto notevole impulso dopo l’incidente di Chernobyl. Esistono differenze notevoli inerenti l’accumulo tra funghi lichenizzati e funghi non lichenizzati, perciò i risultati ottenuti da lavori riguardanti i licheni non possono essere generalizzati ai macromiceti. Ciò in considerazione della diversa natura del tallo di un lichene, in cui le ife del fungo normalmente non penetrano nel suolo, e quello di un macromicete, il cui micelio penetra di solito profondamente nel substrato. Sembra chiara la dipendenza tra grado di contaminazione e tipo di suolo, essendo la contaminazione massima sia in suoli sabbiosi sia in suoli di bosco fortemente umificati, così come grandi differenze nel tasso di accumulo di Cs137 dipendono esclusivamente da caratteristiche della specie. Studi condotti successivamente all’incidente di Chernobyl evidenziano correlazioni tra la tendenza all’accumulo di radiocesio ed ecologia della specie, in particolare la profondità del micelio nel profilo del suolo (i funghi sono stati suddivisi, in funzione dei diversi gruppi ecologici, in: saprofiti, simbionti con latifoglie  o  conifere,  lignicoli).  Studi  condotti  nel Nord Italia hanno infatti evidenziato che le differenze tra specie della stessa stazione dipendono dalla profondità del micelio nel suolo ed una chiara correlazione fu trovata tra la radiocontaminazione media di specie saprofite e precipitazione dei giorni successivi all’incidente di Chernobyl. In questo modo è stato possibile usare i funghi come bioaccumulatori, ricostruendo una mappa della deposizione di radio cesio.

Nonostante alcune specie di funghi siano ottimi bioaccumulatori, vanno considerate le numerose difficoltà che comportano il campionamento di tale matrice: i funghi sono reperibili solo in alcune stagioni dell’anno e in alcune zone, la fisiologia di tali organismi non è del tutto conosciuta, la loro determinazione può essere effettuata solo da personale specializzato, l’interpretazione dei dati non è semplice poiché la contaminazione dei funghi non è sempre riconducibile a quella dei suoli. Nella scelta dei bioindicatori ottimali, pertanto, i funghi passerebbero sicuramente in secondo ordine.

Piante vascolari

Le piante vascolari possono accumulare radionuclidi nei loro tessuti, sono il primo anello di catene alimentari che possono portare a contaminazione nei tessuti animali, tra cui l’uomo, e sono state utilizzate   come   indicatori   del   grado   di   contaminazione   radioattiva   di   alcune   aree.  La contaminazione radioattiva del vegetale avviene sia per deposizione passiva alla superficie degli orga ni vegetativi (nel periodo immediatamente susseguente la ricaduta al suolo) sia per assorbimento attivo all’interno dei tessuti della pianta (tramite l’apparato radicale, può protrarsi per parecchi anni, fino a che vi siano radionuclidi disponibili in soluzione nel suolo). L’assorbimento di radionuclidi da parte delle piante superiori avviene attraverso due vie principali: attraverso la superficie fogliare, in cui il ruolo principale è giuocato dalla morfologia fogliare, e attraverso il sistema radicale, quantificato dal fattore di trasferimento, dipendente dalla concentrazione dei radionuclidi nel suolo, dal tasso di mobilizzazione, dal tasso di trasporto degli ioni nel suolo, dal tenore in acqua del suolo, dal sinergismo e concorrenza tra ioni rispetto all’assorbimento, dalla tossicità degli ioni, dalla concentrazione di ossigeno nell’aria del suolo, dalla temperatura del suolo, dalla selettività nell’assorbimento da parte dei vegetali.

La rapidità ad esempio dell’accumulo di iodio nei tessuti vegetali fa sì che le piante superiori siano considerate tra i migliori indicatori di inquinamento da iodio. Le piante vascolari possono assorbire il cesio anche attraverso le foglie, in modo rapido ed intenso, in funzione della disponibilità di potassio nei tessuti vegetali. Il cesio è quindi traslocato rapidamente ed intensivamente nell’ambito dell’organismo vegetale, a differenza di altri radionuclidi. La concentrazione di cesio nei tessuti vegetali dipende in larga misura dalle caratteristiche chimico- fisiche dei suoli: ciò rende difficili le generalizzazioni sulla contaminazione da cesio su vaste aree a partire da misure di concentrazione nei tessuti vegetali. Nel caso del cesio radioattivo, solubile nell’acqua citoplasmatica, il grado di lignificazione può variare da foglia a foglia, costituendo   elemento   di   disturbo   ai   fini dell’interpretazione di dati di radiocontaminazione. Le piante vascolari possono essere utilizzate quali bioindicatori  in   quanto   permettono   di   rilevare, su piccola scala, l’articolazione della contaminazione radioattiva nell’ambito di un ecosistema; tuttavia sono poco adatte al monitoraggio della radiodeposizione in quanto, assorbendo buona parte del radiocesio dagli apparati radicali,  la  loro  contaminazione  è  soggetta a variazioni che dipendono dalla conformazione, a livello locale, della rizosfera.

Muschi acquatici

I muschi acquatici costituiscono un’ottima alternativa, quali bioindicatori di radiocontaminazione, ad analisi su campioni di sedimenti, pesci ed acque nel controllo della contaminazione dei corsi d’acqua. Studi condotti dal 1962, nell’ambito di programmi di sorveglianza radiologica di siti nucleari in Belgio, hanno evidenziato l’interesse di muschi acquatici (Cinclidotus danubicus) a concentrare radionuclidi, ma anche problemi dovuti all’esistenza di tale specie in biotopi specifici (caratterizzati da acque turbolente e aerate), indicando la possibilità di utilizzare altri muschi (Platyhypnidium riparioides e soprattutto Fontinalis antipyretica).  Ricercatori  francesi  hanno studiato la contaminazione di muschi acquatici (Platyhypnidium riparioides e Fontinalis antipyretica) in laboratorio sia in condizioni statiche che dinamiche e valutato anche la contaminazione in situ, evidenziando che i muschi costituiscono il miglior indicatore di radiocontaminazione, confrontato a sedimento, vegetali superiori e pesci. E stato altresì determinato sia il fattore di concentrazione sia la vita media biologica delle specie in esame.

Diverse indagini radioecologiche sono state compiute in Italia da alcuni decenni, allo scopo di valutare la contaminazione radioattiva e selezionare matrici ambientali ecologicamente significative del comparto acquatico, sia fluviale o lacustre che marino.

Molluschi e Macrofite

Tra i molluschi e le macrofite presentano capacità di accumulo di radionuclidi, solo da alcune loro parti, rispettivamente Unio elongatulus (bivalve bentonico filtratore) e Potamogeton crispus.

Alghe

Indagini radioecologiche eseguite nelle lagune di Marano e Grado dopo l’incidente di Chernobyl, hanno confermato l’utilizzabilità di alghe, in particolare le Ulvacee, quali bioindicatori di radiocontaminazione, per la loro elevata capacità di intercettare ed accumulare il particolato in sospensione e il radioiodio, per il quale mostrano grande affinità. Ulteriori  ricerche  condotte  in  organismi  del  mare Adriatico dopo Chernobyl suggeriscono la scelta di alcuni bioindicatori di radiocontaminazione, quali l’alga verde del genere Enteromorpha, facile da campionare perché si trova in orizzonti superficiali. Le Alghe rosse (Jania rubens e Corallina elongata) presentano, infine, alti valori 234Th (presente in natura),  associati a processi naturali di accumulo da parte del loro tallo.

 

 

Fonti:  AGT-T-RAP-99-13

Michela Bonetti - Tesi di Laurea in Botanica - Biologia Ambientale n°3/1998